Dopo il grande successo di Reshimo, applauditissimo spettacolo inaugurale di Napoli Teatro Festival Italia, la Vertigo Dance Company di Noa Wertheim torna a stregare il pubblico partenopeo con Mana, una creazione del 2009 più volte riproposta sui palcoscenici internazionali. La Sala dei 500, gremita di spettatori, fa da cornice alle evoluzioni di cinque danzatori e quattro danzatrici che si muovono in uno spazio essenziale: l’unico sfondo riproduce il profilo di una casa che avanza, arretra, assume posizioni sghembe e consente le entrate e le uscite attraverso l’apertura centrale. A trasformare il luogo fisico in una dimensione simbolica provvedono la luce e il suono, che con le loro cangianti combinazioni si incaricano di governare il gioco incessante dei corpi.
La fisicità, in Mana, non è mai ostentata: gli interpreti vestono abiti di colore scuro che, soprattutto negli uomini, celano l’impegno muscolare rendendolo intuibile anziché direttamente visibile. Le posizioni più ardite e gli intrecci più complessi sembrano raggiunti senza sforzo, la sincronia perfetta dei gesti e degli slanci - resa più ardua dalla scarsa connotazione ritmica di alcuni dei brani musicali utilizzati - si manifesta come sintonia spontanea invece che come faticosa conquista.
Le prime fasi della rappresentazione sono scoperta pura del movimento come principio vitale. Due corpi virili si esplorano e trovano con stupore, l’uno nell’altro, la scintilla del gesto primigenio. L’azione corale che immediatamente segue invita gli altri ballerini alla stessa ricerca, nella quale il moto sembra trasmettersi per contagio. Si assiste così alla costituzione di un vocabolario cinetico, in cui ogni lemma viene forgiato con cura, messo alla prova, perfezionato nella ripetizione, fissato nella condivisione. In questa attività poietica non ci sono ruoli prestabiliti: a turno, tutti inventano, tutti imparano, tutti trasformano e si trasformano.
Le fasi successive sono più variegate, più ricche di contrasti. L’umanità archetipica, da poco impossessatasi del segreto prossemico, intraprende un percorso di differenziazione: dal gruppo solidale e indistinto, emergono le singolarità. I nove protagonisti si avvicendano in scena secondo abbinamenti sempre diversi, ora riuniti in drappelli ridotti, ora schierati in più ampie pagine corali. La necessità pratica di consentire adeguati momenti di recupero a tutti i membri della compagnia diventa occasione di continue permutazioni che esplorano le diverse alchimie possibili. Di pari passo la coreografia, dopo l’astrattezza rituale dell’esordio, inclina a una maggiore precisione narrativa. Ora davanti agli occhi dello spettatore si sgrana una teoria di interazioni tra individui, nella quale trovano posto il conflitto e la solidarietà, la seduzione e l’oltraggio, la lotta e la passione. Nessun compiacimento manieristico, nessuna stilizzazione: solo un flusso ininterrotto di energia che oscilla tra il picco della foga scomposta e il grado zero del semplice respiro, allorché i nove corpi allineati fanno pensare a un corteo processionale catturato nella fissità di un altorilievo. Quando nell’epilogo ritornano i suoni e i gesti ascoltati e visti all’inizio, si può misurare la distanza tra l’idea incorrotta e il suo inverarsi nelle vicissitudini della storia.
Mana è uno spettacolo potente, che attraverso lo sguardo parla all’intelletto ma evita le secche dell’intellettualismo. L’unica replica è un’occasione da non perdere.